in Lotus International n.150, 2012
La Tempesta è un dipinto di Giorgione databile al 1505 -1508 conservato nelle Gallerie dell’Accademia a Venezia. Nel 1530 il nobile veneziano Marcantonio Michiel descrisse per primo l’opera come un “paesetto in tela con la tempesta con la cigana [zingara] e il soldato” e successivamente alcuni l’ hanno considerata il primo paesaggio della storia dell’arte occidentale. Come intendere questa affermazione? Anche nella pittura di Giotto sullo sfondo delle vicende narrate ci sono dei paesaggi veristici e non più i fondi astratti alla maniera bizantina. Ma in Giotto il soggetto della rappresentazione non sono questi fondali. Non siamo certi che Giorgione fosse consapevole del rilievo singolare assunto dal paesaggio nella Tempesta a causa del fatto che in primo piano ci sono due figure laterali, enigmatiche, forse con un senso allegorico o filosofico.
Però le misteriose figure non fiancheggiano un classico soggetto centrale, come la Madonna con Bambino tra i due Santi della Pala di Castelfranco, ne La Tempesta la parte centrale è occupata da un ‘paesaggio’, sicché per la prima volta nell’arte occidentale il paesaggio, il suo sentimento, assurge al ruolo di protagonista e le figure vi restano ‘immerse’. E’ un organismo vivente e misterioso quello de La tempesta, costruito sulla filosofia naturale del rinascimento ( l’illusione di una prospettiva infinita e il mirabile effetto atmosferico attestano un’influenza di Leonardo), ed è questo paesaggio a trasmettere quella indicibile emozione che ha reso celebre il dipinto. Ma allora cosa intende con ‘paesetto’ il raffinato umanista Michiel, quando designa con questa parola La Tempesta di Giorgione, un olio su tela di 82×73 centimetri? Bisogna tener conto che il ‘pittoresco’ in pittura era stato espresso sino ad allora prevalentemente in delle scene urbane. Perciò non dovrebbe risultare così sorprendente il fatto di veder descritto con il termine ‘paesetto’ il primo dipinto di paesaggio dell’arte occidentale. La parola paesaggio del resto non esiste ancora (il termine deriva dalla commistione del francese paysage con l’italiano paese) e si potrebbe intendere l’espressione usata dal nobiluomo veneziano come un’approssimazione al concetto. Oppure, ‘paesetto’ (pagus, villaggio, borgo) sta ad indicare l’insediamento sullo sfondo con il ponte sul fiume? Ovviamente il termine si riferisce a tutto il contesto in cui sono immerse le due figure del soldato e della donna, il temporale in arrivo, la tempesta, e, sempre dalle nuvole dello sfondo, il balenare di un fulmine sulla scena. Sembra ovvio pensarlo, a meno di credere per assurdo che il Michiel ritenesse le mura della città come il vero soggetto del dipinto. In ogni modo la parola ‘paesetto’ desta una certa inquietudine interpretativa foriera di conseguenze, giacché suona per noi come ‘piccolo paese’ pur essendo portati a intenderlo come ‘paesaggio’, e in seguito, come vedremo, con ulteriore derivazione e distanziamento, come ‘landscape’. Tale ambiguità dipende dal fatto che la nozione di paesaggio include le due diverse tradizioni presenti nella nostra cultura. Se nel binomio latino paese-paesaggio si tende ad unire in un’unica rappresentazione natura e artefatti e, come ne La Tempesta, elementi naturalistici quali fiume, vegetazione, nuvole, temporale, fulmine, sono raffigurati assieme ad elementi artificiali quali rovine, mura, archi, torri, colonne, ponte, resta per noi una difficoltà ad essere altrettanto inclusivi quando adottiamo l’altra nozione, quella di landscape, territorio, con il suo inevitabile orizzonte naturalistico (il termine landschap appare nel sedicesimo secolo in riferimento agli scenari naturali e rurali della pittura fiamminga ).
Così uno dei grandi giardinieri paesaggisti della storia, il francese René-Louis de Girardin, il creatore di Ermenonville, contrapponendo paese a paesaggio fissa una dualità tra cultura e natura attribuendo l’intera categoria ‘paesaggio’ alla creazione culturale distanziandola di fatto anche dalla nozione di landscape. «Lungo le grandi strade e anche nei quadri di artisti mediocri, si vede solo il paese, ma un paesaggio, una scena poetica, è una situazione scelta o creata dal gusto e dalla sensibilità». La frase ormai famosa tratta dell’opuscolo del 1777 De la composition des paysages(…) è diventata l’espressione di una dualità tra il «pays» dei geografi e dei naturalisti e il « paysage » dei pittori e dei paesaggisti. Per contro il concetto anglosassone di landscape nel prediligere il paesaggio spontaneo come il più autentico non prende in considerazione gli artifici della composizione paesaggistica creata da un gusto particolare. Il landscape anglosassone guarda con sospetto l’arte ricercata del giardino italiano o francese, tende a non considerare a sua volta come ‘artificio’ la riproduzione o la rappresentazione di una natura incontaminata e possibilmente sgombra dalla presenza di manufatti. Il giardino alla francese e il parco all’inglese sono certamente due metafore efficaci per comprendere la diversa filosofia dei due atteggiamenti contrapposti.
Per aggiungere un altro percorso a questo scenario e introdurre le tematiche dell’urban landscape’ prenderei in esame la dizione paese-paesaggio per notare come nel corso della tradizione si produca un paesaggio dell’ambiente costruito della città fatto prevalentemente di mattoni, pietra, intonaco, legno, terra, tessuti, ecc. sino a correre l’azzardo di considerare la nozione di ‘paesaggio’ come un derivato di ‘paese’. La variante ‘urban landscape’ per parte sua tende a naturalizzare la città nella tradizione del pittoresco inglese (con la descrizione della topografia urbana come un paesaggio naturale, con il pittoresco delle scene di strada e gli incoraggiamenti di John Ruskin) confermando il dualismo or ora accennato. Nell’urban landscape la naturalizzazione avviene col cercare e nel rappresentare gli aspetti più ‘spontanei’e pittoreschi della sostanza edilizia, quasi a farne opera di natura, e nel mettere in rilievo il verde urbano sino a farne quanto possibile l’elemento preminente. In ogni modo sino ad una certa epoca possiamo affermare che esiste un paesaggio urbano con vedute sia da fuori sia da dentro la città e anche dall’interno verso l’esterno (quando si rappresenta la vista del territorio circostante dalla città). E’ espresso da secoli di vedutismo e di rappresentazioni cartografiche di varia conformazione. Lo sguardo panoramico sulla città con le vedute della sua morfologia e geografia e, da dentro, con gli scorci dell’articolazione edilizia in strade, piazze, monumenti, giardini, canali, e, ancora, con le scene dei rituali sociali e religiosi della vita cittadina, alimentano la lunga tradizione del vedutismo urbano che, sostenuto da un’enorme quantità di opere e di pubblicazioni, perdura sino alla fine dell’ottocento e prosegue tutt’oggi negli studi di iconografia urbana. In questa immensa biblioteca si possono seguire gli sviluppi, da Piranesi a Canaletto a Constable, della rappresentazione urbana, dei punti di vista e delle vedute di città (townscapes) dal secolo XIII al secolo XX. Il lavoro di vedutisti, cartografi, incisori, pittori mostra a partire dal seicento i momenti trionfali dell’abbellimento della città nell’epoca barocca e settecentesca con gli assi, le prospettive, i parchi, i giardini, i lungofiumi, ecc. dove, abbattute le mura delle città, progressivamente la visione diventa più ampia, la città sia apre al territorio e al paesaggio naturale registrando, in un’inversione del rapporto tra figura e sfondo, i modi in cui la natura entra in città.
Se prendiamo in esame il caso di Parigi assistiamo ad un vero e proprio scambio tra la materia della città e quella del paesaggio naturale. Nel settecento l’interesse per l’ambiente naturale si trasferì alla città; per l’abate Laugier che ha in mente i parchi di Le Nôtre: «Occorre considerare una città come una foresta. Le strade di quella sono i sentieri di questa; e debbono essere tracciati allo stesso modo…Applichiamo questa idea, e che il disegno dei nostri parchi serva di modello a quello delle nostre città. Non si tratta che di squadrare il terreno, e di tracciarvi sopra con lo stesso gusto sentieri che diventeranno strade e incroci che saranno le nostre piazze».
In effetti a partire dal settecento possiamo vedere una pratica in cui i giardini, i parchi ed i tracciamenti possono agire nella formazione della città successiva come una sorta di geografia volontaria, una precondizione degli assetti urbani definitivi come nel caso celebre dei Champs Elisèes. E sempre in Francia questa strategia di regolare la pianificazione urbana a partire da un piano paesistico, il cosiddetto ‘preverdissement’, o ‘prepaysagement’, viene applicata sempre più di frequente negli ultimi decenni.
Dopo il fallimento dell’ultimo tentativo di stabilire un accordo tra l’architettura e la città con le proposte di morfologia urbana avanzate da Rossi, Aymonino, Quaroni, Huet, ecc. di nuovo, perlomeno a partire dagli anni ’80 del novecento, c’è il convincimento di dover tener conto una volta per tutte dell’incapacità dell’architettura di fare città, di costituirsi in morfologia urbana significativa, ben consapevoli di non poter fare affidamento sulla medievale città-foresta di Laugier! Da quando è comunemente accettato che l’architettura della città si realizzi tramite una sequela di oggetti indipendenti abbandonando definitivamente l’illusione di determinare attraverso una morfologia urbana il ground (la terra, il terreno, il suolo, la base, il fondo), l’azione del nuovo paesaggista è chiamata ad un vasto compito integrativo e ormai anche progettuale della città e non soltanto, come nella tradizione, indirizzata a configurare gli spazi complementari dei parchi e dei giardini.
Col venir meno dell’architettura della città si dissolve anche la possibilità di stabilire una relazione tra natura e insediamento come indicata dal binomio paese-paesaggio e si apre il campo alle pratiche dell’ urban landscape con la sostanza edilizia tendenzialmente ridotta a skyline, a semplice fondale della nuova scena urbana. Superata la fase del townscape e i suoi tentativi limitati di fare del pittoresco nel corpo della città esistente strada per strada, ciascuna intesa come una composizione singola, un’immagine particolare, il nuovo urban landscape si candida a modellare attraverso l’azione paesistica, ormai integrata da una componente ecologica, gli innumerevoli spazi privi di senso della città e sovente caratterizzati da un caotico intreccio di infrastrutture (vedi in Lotus 139 Olympic Sculpture Park Seattle, Washington, 2001-07 di Weiss/Manfredi), assumendo i connotati di una pratica urbanistica complessiva alla cui leadership competono ugualmente urbanisti architetti e paesaggisti. Nella dialettica tra Urbanism e Landscape si potrebbe vedere anche riproposto il dualismo della nostra cultura del paesaggio. Lo schema inteso idealmente a mettere in primo piano il paesaggio (non più esclusivamente naturalistico e antiurbano come nella vecchia tradizione anglosassone) e a collocare sullo sfondo l’architettura promuove un’estensione della figura del paesaggista verso le competenze della pianificazione (modello Olmsted). Lo schema inteso a mettere in primo piano la città come artefatto architettonico inserito in un piano paesaggistico vede all’opera urbanisti e architetti che diventano paesaggisti e immaginano paesaggi a partire dalla sostanza edilizia della città (modello Le Corbusier). Così nell’osservare gli sviluppi attuali potremmo notare la maggiore efficacia assunta dal modello Olmsted, al momento più praticabile, e le difficoltà incombenti sul modello Le Corbusier troppo impegnativo per i parametri neoliberisti odierni (difficoltà riguardanti anche i cosiddetti ‘progetti urbani’ riguardanti le operazioni a cavallo tra urbanistica e architettura decisive per le trasformazioni della città). Ci sono poi urbanisti che si improvvisano paesaggisti e viceversa. Ma questa è un’altra storia.
Una versione intermedia tra i due modelli indicati si trova in alcuni interventi di Manuel De Solà Morales cui si deve peraltro un notevole contributo a formulare l’idea di ‘progetto urbano’ (ostacolato, come detto, dalle difficoltà di coordinare la sostanza edilizia della città). Progetti come il Moll de La Fusta di Barcellona e la Passeggiata sull’atlantico di Oporto uniscono in un disegno urbano coerente paesaggio e infrastrutture stimolando notevoli conseguenze nel successivo sviluppo della città. La realizzazione del Moll de la Fusta del 1984 diede avvio negli anni successivi alla acquisizione di un lungo tratto della costa offrendo alla città il paesaggio di uno spazio pubblico tra i più vasti dell’Europa, mentre il progetto di Oporto la ‘Passeggiata sull’atlantico’(2001), collegando la città al mare, riunisce due tratti di costa con un nuovo parco marittimo e una grande promenade anticipando le proposte del LandscapeUrbanism’.
Una variante intermedia potrebbe essere individuata anche nella strategia diffusa in Francia di regolare la pianificazione urbana a partire da un piano paesistico, come abbiamo visto e come viene descritto da Michel Desvigne in questo numero di Lotus: una sorta di trasposizione delle procedure indicate dall’abate Laugier.
Nella recente versione denominata ‘LandscapeUrbanism’, urbanistica del paesaggio, descritta da James Corner (e Stan Allen) lo stretto legame stabilito con la cultura architettonica e urbanistica si presenta anch’esso come un superamento degli aspetti antiurbani della tradizione anglosassone. In effetti il campo operativo del ‘LandscapeUrbanism’ è nelle ampie zone marginali della città e la scelta di responsabilità per l’ambiente induce ad un approccio interdisciplinare che comprende: architettura, paesaggio, disegno urbano, landscape ecology. Una certa propensione all’indeterminatezza sottolinea come l’atteggiamento di affrontare i problemi della città contemporanea sia focalizzato sui processi più che su una predeterminazione formale. Il progetto di paesaggio così inteso incorpora le problematiche dell’ecologia e della ‘sostenibilità’ mentre l’adozione di metodi operazionali e la propensione a governare i processi traduce in termini pragmatici la componente temporale. In particolare l’attenzione per i fenomeni che si sviluppano in esteso nelle superfici topologiche orizzontali (field operations ) determina un impegno esplicito nel campo dell’urban design per una città che si espande oltre i limiti fisici e amministrativi tradizionali. Anche se i progetti più significativi del ‘Landscape Urbanism’ sono stati elaborati per parchi cittadini e la città stessa non è stata toccata che marginalmente (e in ogni caso resta notevole l’intervento della High Line di New York) il nuovo atteggiamento sembra destinato a elaborare nuove proposte in grado di gestire la densità urbana e di integrare nel paesaggio architettura e infrastrutture.