Le riflessioni sull’abitare contenute nei saggi di Roberto Bianche ed Enrico Garlaschelli – uno architetto, l’altro filosofo – mi incoraggiano ad approfondire alcuni temi in riferimento alle attuali discussioni sul costruito – quella sindrome del ‘cemento’ diventata malauguratamente una delle questioni più dibattute ai nostri giorni. A proposito invece dell’abitare va riconosciuto il merito alle riflessioni filosofiche e architettoniche degli ultimi decenni del secolo scorso citate nel libro per aver operato al fine di modificare molte idee stantie sull’abitare. La lettura dei saggi di Abitare il costruito , poi, mi induce a risalire l’onda di quei pensieri, a ripensare il senso di quelle attenzioni sull’ ‘abitare e costruire’ e guardare alla direzione presa dalla discussione negli ultimi tempi. Pertanto non va dimenticato il fatto che l’impronta brutalmente produttivistica dell’edilizia moderna – vale la pena di ricordarlo – è stata superata anche grazie all’influsso di un pensiero capace di rimettere in discussione i compiti dell’architettura. Ripensando a quel dibattito così fervido di scritture architettonico-filosofiche sulla questione della tecnica, della massificazione , dell’anomia sociale, ecc. possiamo confermare, a distanza di qualche decennio, l’importanza del monito heideggeriano rivolto nel celebre ‘costruire, abitare, pensare’ a partire dal quale la cultura architettonica si è adoperata a favore di un abitare rispondente alle differenze dei modi dell’essere. Da allora sono scomparse quasi del tutto le teorie deterministiche sull’edilizia di massa, non si sono più costruiti i ‘casermoni’ e sono stati abbandonati gli eccessi della produzione di serie tipica del tardo modernismo. Ugualmente decisiva è stata l’indicazione per cui nella nostra mente si è fissata in quei momenti l’idea che l’uomo riesce ad abitare solamente mediante il costruire, da cui sembrava di poter stabilire l’imprescindibilità della mediazione architettonica. Ma, come proverò a dire, è proprio questa idea dell’imprescindibilità e che cosa sia questo ‘costruire’ ad aver bisogno di altre precisazioni in quanto appena avanziamo col discorso si presentano delle aporie a causa delle quali sperimentiamo sovente l’impossibilità di dare risposte precise e coerenti. Spesso ci si trova a scegliere tra soluzioni opposte, tutte apparentemente valide. Per quanto la si ritenga imprescindibile, l’architettura – in quanto necessità di costruire per abitare – di fatto non viene dominata dall’architetto nel suo senso più ampio poiché egli non dispone di una sovranità indiscussa sulle sorti dell’ambiente fisico. Quando discutiamo su come dovrebbero essere le nostre case pensiamo che gli abitanti debbano essere introdotti nell’architettura in quanto riteniamo che gli esseri umani siano innanzitutto fuori dall’architettura. Questa rappresentazione non coglie l’essenza dell’architettura ‘poiché per l’uomo non esiste qualcosa che si chiama architettura separato dall’essere umano ’, se questo abita, e non può che abitare il mondo. Poiché ciascuno sta da qualche parte e abita in qualche modo, possiamo dire che tutti stanno già nell’architettura e alla lettera nessuno avrebbe bisogno di esservi introdotto, come se dovesse essere trasportato, trasferito da un altro luogo. Se le cose stanno così, allora si potrebbe vedere in tutti gli uomini la capacità di farsi un riparo, e in un certo senso questo può essere tanto più vero per quelle popolazioni che autorealizzano i propri insediamenti entro un ethos e una tradizione stabilita. Ma da noi la gente non si costruisce la casa con le proprie mani e tanto meno è in grado di fare da sé gli edifici più importanti. Va detto poi che il compito dell’architetto può essere inteso in vario modo: può consistere in poco più di un aiuto a qualcuno per sistemare un appartamento, può essere una collaborazione, una consulenza a qualcun altro intento a realizzare il suo habitat, oppure può risolversi con la predisposizione di un alloggio completo di tutto punto per un destinatario che desidera solo prenderne possesso. Ma soprattutto, quando diciamo che l’intercessione dell’architettura – ma di quale architettura – è imprescindibile per configurare l’abitare dell’uomo non ci limitiamo con ciò a intendere soltanto l’aspetto sedentario, stanziale dell’uomo e la sua azione edificatoria: il costruire, il coltivare, l’uso di certe tecniche, ecc. Con la parola ‘architettura’ vogliamo qui intendere realmente la modalità con cui l’uomo abita il mondo in quanto essere vivente. Dunque, che si muova o no l’uomo, sempre, abita e così seguendo un punto di vista biopolitico si presuppone che il mondo sia continuamente modificato dall’abitare umano e, potremmo dire, dagli esseri viventi in generale: con delle importanti conseguenze. Negli ultimi tempi infatti una nuova preoccupazione interviene a rendere ancor più problematico Abitare il costruito. Il quadro dei riferimenti si è modificato: alla passione per realizzare modi di costruire adatti alle esigenze più proprie dell’uomo è subentrato un altro pathos. L’opinione pubblica, e non soltanto la solita cerchia di intellettuali, è attraversata da una nuova inquietudine, è in preda ad un’angoscia inedita circa le sorti del pianeta, la qual cosa mette in dubbio ancora una volta la legittimità del nostro modo di costruire. Si è diffusa l’idea che, a causa del nostro modo di abitare, l’impronta dell’uomo sulla terra abbia assunto caratteri distruttivi tali da mettere in forse la stessa sopravvivenza del pianeta. Per l’architettura l’accusa principale allora diventa non tanto il fatto di non corrispondere abbastanza alle esigenze dell’abitante insediato quanto di trascurare e infine di distruggere l’’abitato’, la cosa dell’abitare, qualcosa che non è soltanto il costruito ma l’insieme del creato. Si comprende come nella percezione della totale simultaneità di abitare e costruire la parte edilizia in senso stretto finisca per rappresentare soltanto una porzione del nostro modo di porre la questione dell’abitare. Per continuare l’argomentazione appena menzionata, si deve intendere per ‘abitato’ ‘il mondo in quanto ospita degli esseri viventi’, e non si può immaginare che per l’uomo esista un luogo del non abitare prima di entrare in possesso di una casa. Per abitare non occorre essere introdotti nell’architettura in quanto riteniamo che gli esseri umani non possano esistere al di fuori dell’’abitato’ se intendiamo quest’ultimo come la condizione imprescindibile della vita di ogni essere vivente nel mondo. Dunque le affermazioni di Le Corbusier poste in esergo del libro: ‘gli uomini abitano male ’ , potrebbero essere valide se intese come: ‘gli uomini costruiscono male le loro abitazioni’.
Roberto Bianchi, Enrico Garlaschelli, Abitare il costruito. Riflessioni di architettura e filosofia sul tempo presente