Il bello dell’agricoltura urbana

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in Lotus International n.149, 2012

L’espressione ‘agricoltura urbana’ designa il diffondersi in molte città di aree coltivate da city farmer che distribuiscono i frutti della terra da loro lavorata nelle vicinanze delle zone di produzione. Il movimento nato per rispondere ad un insieme di esigenze reali è diventato un fenomeno globale ed è presente in forma organizzata in diverse città: da Mumbai, a Pechino, Londra, New York, Detroit, San Paolo, Rosario, Vancouver, Tokyo, San Francisco, ecc. Il movimento dell’urban farming con la sua produzione di cibo, i suoi intenti educativi, l’idea di costruire situazioni sostenibili ha trovato stimoli per attecchire in tante città e metropoli essendo strettamente integrato con l’ecosistema urbano. Per la più parte sono i poveri e le donne che, lavorando in piccole fattorie situate in localizzazioni intra ed extra-urbane, alimentano questo movimento politico-culturale e con i loro ambienti agricoli  creano nuovi paesaggi interessanti da analizzare anche in chiave estetica per l’influenza che potranno avere nel paesaggismo contemporaneo. Il fenomeno potrebbe avere delle ripercussioni sulle convenzioni visive dell’ambiente urbano e periurbano e finanche agire su comportamenti e stili di vita dei cittadini qualora si sviluppasse a scala maggiore. In effetti si possono vedere i primi esiti di questo fenomeno nell’osservare come alcuni cittadini si sforzino di recuperare il senso del ciclo giorno/notte, dei ritmi stagionali. Da qui può nascere la felice scoperta  che anche l’ambiente urbano può essere partecipe dei cicli naturali tipo neve-pioggia-sole, primavera-estate autunno-inverno, e altro ancora. Insomma con l’agricoltura urbana si ritornerebbe a vivere, ma in maniera consapevole, riflessiva ed estetica, ciò che è stato presente nel mondo contadino ma in modo irriflesso, abitudinario e al di fuori di una vera consapevolezza estetica. Da quando il mondo contadino è scomparso quasi del tutto nei nostri paesi avanzati, sostituito da una industria agricola pervasiva che ha lasciato solo qualche residuo dei vecchi ambienti agricoli e delle vecchie usanze, sembra spetti alla città, paradossalmente, di attrarre a sé qualcosa di quel mondo e così talvolta si possono vedere a Milano degli stormi di uccelli prendere possesso di certi grandi alberi sopravvissuti ormai soltanto nei parchi cittadini. L’orizzonte paesaggistico in cui si muove questa nota stimola delle considerazioni particolari sul ruolo dell’agricoltura urbana nel dare risposta ad un bisogno che sarebbe stato trascurato dai programmi di landscaping portati avanti dai paesaggisti negli ultimi decenni. Ad esempio la nuova tendenza georgofila potrebbe valere come compensazione nei confronti delle correnti troppo estetizzanti del paesaggismo contemporaneo con il loro trattamento puramente pittorico di ambienti che chiedono soltanto di essere visti. Chiamata in causa a risolvere i problemi particolari che affliggono la produzione della località in un mondo deterritorializzato, l’arte del paesaggista, lasciata a sé, anche se ispirata dalle immagini e dai pattern del paesaggio agricolo, non poteva che mettere in scena dei simulacri con l’evocazione delle varie tecniche della produzione di località: l’organizzazione dei sentieri e dei passaggi, la creazione o lo smantellamento dei campi e degli orti, le cerimonie di nominazione, la mappatura simbolica degli spazi di transumanza e dei terreni di caccia, in uno scenario ovviamente privo dei corpi sociali degli attori corrispondenti alle funzioni evocate. Insomma al paesaggista è venuto a mancare il vicinato, vale a dire una forma sociale effettivamente esistente in cui la località, come dimensione o valore, si realizzasse.

Comunità di vicinato legate a forme intensive di agricoltura urbana erano presenti sin nelle civiltà più antiche più ‘ecologiche’ delle nostre e non sorprende che qualcuno pensi alle attuali coltivazioni biointensive urbane come a un ‘Farmaco’ in grado di creare nuove comunità di vicinato, di concorrere al risparmio energetico e di favorire la sostenibilità ambientale. Se nell’ottocento con lo sviluppo del capitalismo industriale fu individuata nella separazione fra città e campagna la prima causa della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, l’attuale agricoltura urbana con la sua manualità può fungere da lenitivo per quella storica contrapposizione. Nondimeno tale contrapposizione viene nuovamente evocata nell’espressione ‘Agricoltura urbana’ dal momento che ‘città’ e ‘campagna’ con le loro contraddizioni fungono tuttora da articolazioni basilari dell’insediamento umano. Perciò la locuzione  suona come un ossimoro, come, tanto per fare un esempio, «Paradiso infernal, celeste inferno», adottato da Giovan Battista Marino per definire l’Amore nel suo ’Adone (1623). Del resto la figura dell’ossimoro, apprendiamo da Jacques Derrida, è intrinseca allo stesso significato del temine greco Pharmacon che è al tempo stesso il rimedio e il veleno, ciò che restituisce la salute e insieme reca la malattia e la morte, proprio come due sono le facce in cui nel tempo si è sdoppiato Amore, che è sia dotato di vista lungimirante, sia cieco, sia sacro, sia profano. In effetti se si traduce pharmakon con “rimedio”, “medicamento terapeutico”, si sottolinea la valenza razionale, scientifica del termine, finendo col sottovalutare la componente magica, la potenza occulta incontrollabile peculiare degli incantesimi e delle stregonerie, di cui non si possono prevedere fino in fondo le conseguenze perché ha l’effetto di un sortilegio capace di ingenerare torpore, narcosi, paralisi letale. Per parte sua l’agricoltura urbana potrebbe avere anche delle conseguenze estetiche oltre che terapeutiche sulle città, e produrre un riequilibrio nei confronti degli aspetti meramente decorativi del verde urbano.

Certamente la svolta che ha portato dall’idea di un ’Giardino Planetario’ alla maniera di Gilles Clement, avanzata nella celebre mostra del Jardin Planétaire alla Grand Halle de la Villette (Parigi 1999), all’idea di un ‘Orto Planetario’ implicita nella nuova tendenza georgofila, preconizzata inizialmente anche come filosofia di fondo per l’Expo di Milano del 2015, comporta la scelta per una opzione umanistica a favore della coltivazione, rigettando, di fatto, le posizioni più radicali della deep ecology che come si sa ritengono il coltivare un’indebita intrusione antropocentrica nel corso degli eventi naturali. La nuova passione georgofila non ha niente a che vedere dunque con la pur affascinante idea del terzo paesaggio dello stesso Gilles Clement il quale con l’espressione “Terzo paesaggio”, indica tutti i “luoghi abbandonati dall’uomo”: i parchi e le riserve naturali, le grandi aree disabitate del pianeta, ma anche le aree industriali dismesse dove crescono rovi e sterpaglie; le erbacce al centro di un’aiuola spartitraffico… spazi diversi accomunati solo dall’assenza di ogni attività umana, ma che presi nel loro insieme sono fondamentali per la conservazione della diversità biologica. La nuova passione per il vegetable garden, per l’agricoltura urbana o periurbana, si avvale di vecchi e nuovi saperi della natura, recupera vecchie tecniche di coltivazione, vorrebbe stabilire un nuovo patto con questi stessi organismi adattandoli ad una botanica urbana, selezionarli, raggrupparli, averli sotto casa, coltivarli, riceverne dei frutti e, non da ultimo, riprodurre un certo tipo di comunità attorno a questi stessi fatti. Pur permanendo in città, o proprio per questo, vorrebbe mettere in atto particolari codici estetici e comportamentali in modo da produrre vicinato valorizzando certe pratiche materiali affrontando la produzione di località nel panorama tendenzialmente deterritorializzato della metropoli.

Qual è il significato della frase “Dobbiamo coltivare il nostro orto” nel Candido di Voltaire? Voltaire dice che il coltivare l’orto sarebbe come “farsi gli affari propri”? C’è in questa affermazione qualcosa che riguarda la recente diffusione dell’agricoltura urbana? Voltaire, mettendo queste parole in bocca al protagonista, intende sostenere che si deve fare quanto è nelle nostre possibilità senza cedere a sogni impossibili o immaginare una realtà inesistente. Tra tanti orrori l’uomo può essere padrone del suo destino a condizione di non cedere all’illusione di teorie fallaci o di rivoluzioni utopiche che cozzano con la realtà della nostra umana natura e dei mali delle varie società costituite. Se le cose stanno così bisogna collocare il fenomeno della nuova agricoltura urbana nella narrazione della fine delle grandi illusioni?  E’ la risposta a questi anni di crisi dei paesi occidentali? Profondamente colpito dalle sue sfortunate vicende personali ugualmente ferito da avvenimenti terribili, come il terremoto di Lisbona del 1755 che aveva distrutto la città, causato migliaia di morti e incrinato la sua fede nella Provvidenza, Voltaire scrive Candido sotto l’influsso del pessimismo del momento. Solo alla fine del racconto il filosofo si abbandona alla speranza contenuta nella celebre frase “il faut cultiver notre jardin” (dobbiamo coltivare il nostro orto).

Di nuovo, nel fenomeno attuale di coltivazione del proprio orto, vi è l’accentuazione della dimensione collettiva, comunitaria e anche la richiesta di non starsene confinati ai margini della periferia urbana come nella tradizione degli orticelli urbani del secolo scorso ma di vedere con orgoglio queste attività addirittura come un contributo alla salvaguardia del pianeta.

Coltivare il proprio orto rappresenterebbe un fenomeno politico di dissidenza per chi cerca di salvare il mondo mettendosi in difesa del cibo, in un momento di drammatica oscillazione tra bulimia e anoressia, ma di nuovo in questa discussione fa capolino la figura dell’ossimoro come nel titolo dell’ultimo libro di Serge Latouche ‘Per un’abbondanza frugale’ , ‘un’accesa requisitoria contro la catastrofe prodotta dalla bulimia consumistica’.

Dunque qualcuno arriva a pensare che nella nostra epoca cucinare con i semplici prodotti della natura, coltivarne una parte possa essere guardato come un atto sovversivo.  Quando nel 1969 il Manifesto del Fronte di Liberazione del contadino impazzito del  poeta, scrittore, contadino Wendell Berry  uscì sul Whole Earth Cathalog, la madre di tutte le riviste alternative, fu subito evidente che conteneva quanto di meglio era uscito dalla rivolta studentesca americana e dall’ipotesi di un ritorno alla natura abbandonando la società dei consumi.

Da allora sono passati 40 anni e il suo messaggio ecologista è diventato mitico, ma in realtà non sappiamo se dobbiamo rispondere agli eccessi del consumismo o alle nuove carenze prodotte dalla grave crisi economica in corso affidandoci a fonti energetiche alternative. Certamente la nuova agricoltura urbana ha un valore simbolico e terapeutico, può aiutarci a modificare tanti punti di vista sul mondo, ma dobbiamo convincerci che non potremo far troppo conto sulla sua capacità produttiva.

E però del giardino la nuova agricoltura urbana vuole mantenere sicuramente il carattere di un luogo di compensazione pur con l’aggiunta di un pathos particolare dovuto alla scoperta che l’orto oltre ad avere una forma produce anche dei frutti. Chi in Italia non ammira i paesaggi agricoli presenti nella grande tradizione della pittura, pittura che ha costruito la base dell’idea del paesaggio italiano? La coltivazione del verde urbano sembra un proposito esaltante e verosimilmente un terreno di cultura anche estetico per sperimentare nuove forme di convivenza e di fertilità dei rapporti comunitari e non è detto che questo non possa avere delle conseguenze. Sarà interessante vedere nelle nostre città quanti orti cresceranno nelle zone trascurate e se qualcuno inizierà a rendere coltivabili i giardini. L’apprezzamento estetico dell’orto presuppone uno slittamento della sensibilità dall’ambito visivo e psichico del recente paesaggismo all’ambito fisiologico ed empirico  più proprio dell’ habitat agreste, dove il metter mano, ma anche assaporare, mangiare, nutrirsi, faticare, sporcarsi, ecc. implica un’apertura alla contaminazione tra sfere diverse del sensibile. Infine,  perché no? ‘Coltivare il nostro orto’ può essere un pharmakon , un “rimedio” un medicamento terapeutico interessante dal quale non si può escludere l’insorgere di qualcosa di cui non si possono prevedere fino in fondo le conseguenze.