in Lotus International n. 155 , 2014
Secondo Richard Sennett per la realizzazione di una città aperta bisogna puntare alla creazione di confini ambigui tra le diverse parti della città, generando forme incomplete negli edifici e pianificando universi narrativi incompiuti. Nel prendere in esame i confini ambigui Sennett cita il biologo Stephen Jay Gould e la sua distinzione nelle ecologie naturali tra due tipi di confini: limiti e bordi. Il limite è un confine dove le cose finiscono; il bordo è un confine dove diversi gruppi interagiscono. Sui bordi, gli organismi diventano addirittura maggiormente interattivi, proprio per l’incontro di diverse specie e condizioni fisiche; per esempio, «dove la sponda del lago incontra la terraferma si crea una zona attiva di scambio per gli organismi, che trovano e si nutrono di altri organismi». Potendo andare oltre l’analisi biologica sarebbe interessante verificare l’idea dei bordi interattivi di Stephen Gould in alcune situazioni estreme quando, ad esempio, un’immensa onda oceanica assale la terraferma come nel caso degli tsunami. Non possiamo esimerci dal far scorrere dinnanzi a noi le immagini dei territori colpiti da tsunami, delle rive di fiumi che rompono gli argini causando inondazioni, dei confini di regioni colpite da alluvioni o da uragani tipo Katrina o Sandy, cui vanno aggiunti i confini nei quali si cerca di contenere i disastri ecologici prodotti dall’uomo (tipo l’Oil disaster del 2010 nel golfo del Messico), ecc. Le iniziative per correre ai ripari e soprattutto per predisporre i sistemi dotati della flessibilità sufficiente a difendere gli ecosistemi e assistere la rinascita degli insediamenti sono imperniate quasi sempre sull’idea di preservare il bordo interattivo di un litorale (modello alla Gould), eventualmente di migliorarlo mediante la progettazione di un landscape costiero in grado di attuare le strategie di mediazione tra le forze della terra e dell’oceano (in Giappone, Filippine, Cile, Olanda, USA, ecc.). Si tratta certamente del superamento della nota pratica di edificare barriere difensive atte a stabilire un limite, una separazione netta tra due elementi – di solito tra la terraferma e l’acqua – come il molo, la “palazzata”, il lungomare, il lungofiume di una città, con quei manufatti robusti adottati dalle città europee sino a tutto il Novecento. Ora questo modello sembra superato e gli insediamenti costieri, e soprattutto le grandi metropoli affacciate sul mare, cercano di dotarsi di un nuovo waterfront dove il confine è un bordo interattivo. Lo fanno ristrutturando dei porti, trasformando fasce urbane retrostanti, introducendo parchi costieri, ecc. il cui effetto è di inserire una struttura resiliente, con le caratteristiche di quei confini ambigui, dalle forme incomplete ed evolutive, descritti da Sennett. La parola “resilienza” è usata inizialmente in ingegneria per indicare la proprietà che alcuni materiali hanno di conservare la propria struttura o di riacquistare la forma originaria dopo essere stati sottoposti a schiacciamento o deformazione. Per un metallo la resilienza rappresenta il contrario della fragilità. Così, per analogia, in campo psicologico la persona resiliente è l’opposto di una facilmente vulnerabile. Etimologicamente “resilienza” viene fatta derivare dal latino resalio, iterativo di salio che in una delle sue accezioni originali indicava l’azione di risalire sulla barca capovolta dalle onde del mare. La parola resilienza, invocata come rimedio toccasana nelle recenti crisi economiche, interpretata in sociologia come arte della mediazione dei conflitti e dunque come resilienza sociale in situazioni segnate da sfide difficili, è ora presa in grande considerazione anche nel campo dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggismo essendo diventata uno degli obiettivi preminenti nelle operazioni messe in campo dopo i drammatici eventi naturali prodotti soprattutto dall’azione dell’acqua. Una protagonista che rievoca diluvi, cataclismi e altre antichissime sciagure dell’umanità e che finisce per avere una relazione misteriosa con l’etimologia della parola stessa “resilienza”. Ai fini del nostro argomento per resilienza dobbiamo intendere la scienza, meglio l’arte, o meglio ancora la capacità di un sistema di adattarsi ai cambiamenti: la capacità di un insediamento, di un’iniziativa o di una persona di conservare la propria integrità e il proprio scopo fondamentale di fronte a una drastica modificazione delle circostanze. Questa precisazione è necessaria per non confondere la novità di questa ricerca della flessibilità, la sua apertura al futuro, con l’aspirazione conservatrice a tornare alla condizione precedente. Insomma la resilienza non è solo una forma di resistenza di fronte alla minaccia di rotture drammatiche e neppure, al contrario, una riedizione della distruzione creatrice alla Schumpeter, ma un’arte di vincere in un modo diverso che l’Occidente, abituato a costruire limiti invalicabili per contrastare le sue minacce, sta scoprendo, ad esempio, cercando di introdurre dei bordi interattivi proprio sui confini maggiormente segnati da un disastro. La locuzione latina Frangar, non flectar, tradotta letteralmente, significa «mi spezzerò ma non mi piegherò» e nella traduzione italiana è citata spesso come «mi spezzo ma non mi piego». È usata come motto gentilizio per indicare orgogliosamente un’integrità morale che non cede davanti a nessuna minaccia o pericolo. A volte, come nel nostro caso, è usata con significato opposto «mi piego ma non mi spezzo» a indicare un processo di adattamento di fronte a eventi negativi come nel caso della resilienza la quale non coincide neppure con la robustezza, che di per sé può essere fragile. Con questa parola si sottolinea piuttosto l’invenzione e lo sfruttamento delle capacità plastiche di un sistema la cui ripresa non ha l’obiettivo di perseguire un ritorno allo stato iniziale, come nel caso di un restauro del tipo «com’era dov’era», e neppure di creare soluzioni definitive quanto, come suggerisce Sennett, di trovare soluzioni aperte pianificando universi narrativi “incompiuti”. La resilienza biologica e la sostenibilità richiedono la capacità di durare, di adattarsi, e di mantenere una stabilità dinamica a fronte di ambienti caotici dovendo sempre più spesso fronteggiare calamità legate all’azione di agenti naturali: in questa categoria rientrano i fenomeni conseguenti ai processi della dinamica fluviale (piene e alluvioni), della dinamica dei versanti (erosioni e frane) e della dinamica dei litorali (variazioni delle linee di costa). Si tratta di processi naturali che modificano in continuazione le forme della superficie terrestre: fanno parte del normale gioco delle forze della natura e agirebbero anche senza la presenza dell’uomo. Una predisposizione all’atteggiamento resiliente da parte delle culture dell’estremo oriente si trova nel principio taoista della cedevolezza. Se si pensa alle tecniche di combattimento a corpo libero e alle strategie di cedimenti applicata nel Wing Chun e la virtù che rende quasi unico questo stile vediamo proprio nella sua capacità di cedere e, adattandosi immediatamente alla “forma” del combattimento, di utilizzare a proprio vantaggio tutte le forze che si vengono a creare in un ravvicinato campo di sinergie fulminee fra due avversari. Se poi analizziamo i testi dell’antica tradizione del Taoismo cinese scopriamo brani utili per comprendere l’origine delle reazioni “resilienti” delle popolazioni giapponesi di fronte allo tsunami. In altri termini il Tao indica che l’atteggiamento dell’acqua è quello dell’adattamento, essa prende la forma del contenitore che la limita, nel suo scorrere non evita nulla, è un elemento incomprimibile. Un altro brano richiama il principio di “cedevolezza” taoista: «l’uomo nasce molle e debole e muore rigido e duro. Le piante nascono molli e muoiono secche. Per questo il rigido e duro appartiene alla morte, il molle e il debole appartiene alla vita». Non è un caso che la metafora naturalistica ricorrente nel taoismo sia l’immagine dell’acqua, elemento tenace, ma nel contempo massimamente duttile. L’azione dell’acqua diviene dunque modello per l’azione dell’uomo: resistere a ogni ostacolo senza spezzarsi; vincere senza contendere, scorrere senza esaurirsi. Per questo motivo la resilienza non coincide con la robustezza, che, come abbiamo visto, può essere fragile. Il principio di cedevolezza taoista presuppone una confidenza con la natura, sembra un metodo per rispondere ai drammatici eventi d’acqua, anche se le popolazioni del Giappone hanno mostrato di saper affrontare con altrettanto spirito di adattamento eventi drammatici di terra come incendi o terremoti. Per ora possiamo notare il fervore con cui sono elaborati piani e progetti di paesaggio impostati sui nuovi criteri della resilienza in risposta a eventi naturali drammatici come inondazioni, alluvioni, uragani, ecc. Dopo queste esperienze possiamo riguardare con un occhio diverso la città stessa, intendo l’insediamento umano storico per eccellenza, e riconsiderare il senso della sua durata e capacità di trasformarsi. Tale capacità non riguarda naturalmente ogni tipo di insediamento. Ad esempio ne restano esclusi gli insediamenti di supporto ad aree industriali, militari, ecc. cui dobbiamo aggiungere i numerosissimi insediamenti monofunzionali come quartieri d’abitazione, comunità immobiliari recintate che, per confermare il nostro argomento, sono strutture robuste ma fragili destinate a cedere, come altre infrastrutture difensive, di fronte alla pressione imprevista di un agente esterno. Di un principio di resilienza attivo al contrario si avvalgono le strutture generative fornite di una vitalità interna come le città, una vitalità quella delle città non esaurita dalla costituzione materiale della loro sostanza edilizia per la cui difesa il tradizionale sistema delle mura ha avuto un ruolo sostanzialmente secondario nei secoli passati. L’appartenere della città, più dell’architettura, ai tempi della lunga durata è dovuto alle incredibili capacità della città di trasformarsi in continuazione rinnovando di volta in volta il senso della propria identità, secondo un principio di resilienza. Superando ogni disavventura la città della storia, con la testimonianza della sua lunga durata, mostra una capacità metamorfica di adattarsi ai cambiamenti unitamente alla capacità di conservare la propria integrità e il proprio scopo fondamentale anche di fronte alle più drastiche modificazioni delle circostanze. Dunque la sfida dei nuovi insediamenti sarà di possedere quei caratteri di “scioltezza strategica” che sa coniugare la fluidità di strategie con la fissazione di scopi e di valori sapendo che molti degli aspetti della resilienza sono legati a uno specifico contesto. Le città restano il sistema resiliente per eccellenza, hanno avuto ragione delle catastrofi in virtù di loro fattori peculiari come possesso di strutture, elaborazione di sistemi appropriati e soprattutto contando su mentalità e valori condivisi. Bisogna ammettere che le città, gli insediamenti urbani, hanno mostrato in diversi momenti della loro storia anche notevoli capacità di scomposizione e di ricomposizione, discutendo e negoziando di volta in volta il senso dei confini non solo con l’esterno, ma anche tra quartieri, tra gruppi sociali, etnici e religiosi, capacità necessarie per metabolizzare i processi di trasformazione. La mancanza di un principio di “cedevolezza” porta anche la città alla sconfitta, al venir meno di questo principio la città finisce per seccare e morire. In ogni caso, per ora, non è da escludere che dai progetti più interessanti scaturiti in risposta ai recenti eventi drammatici naturali possa nascere un processo di rigenerazione urbana e sociale a conferma delle speranze riposte nella nuova mentalità “resiliente”.